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Issue n. 12 | Jennifer Chert intervistata da João Mourao e Luìs Silva

28 Settembre 2018 Artissima Stories

João Mourao e Luìs Silva: Il venticinquesimo anniversario di Artissima è un momento per guardare sia al passato che al futuro. Noi siamo da sempre molto interessati a questo tipo di riflessione. In questo caso ancora di più poiché siamo recentemente diventati parte della famiglia di Artissima. Ci piacerebbe cominciare questa conversazione dal passato chiedendoti: Quale è la tua relazione con la città di Torino? Quali sono i tuoi primi e migliori ricordi della città?

Jennifer Chert: Ho cominciato a frequentare regolarmente Artissima e a passare del tempo a Torino nel 2003, e ho partecipato per la prima volta con la galleria nel 2008, lo stesso anno in cui Chert (ora ChertLudde) ha aperto. Voi scrivete di passato, futuro e ricordi, tutti argomenti nei quali mi perdo e mi confondo quasi immediatamente, una sensazione che per me si lega molto bene alla città. C’è voluto tanto tempo per capire come orientarmi e per farmi un’idea della struttura urbana. Nonostante io sia di origini italiane e parli la lingua, mi sono persa innumerevoli volte a Torino. Ora abbiamo tutti Google Maps e questo non succede più, tuttavia tutti quegli anni passati ad andare fuori strada hanno dato forma alla strana relazione di amore-odio che ho con la città, e che in qualche modo connetto alla fiera stessa. Abbiamo visto molte edizioni e abbiamo avuto quattro direttori diversi, e sento che solo molto recentemente abbiamo cominciato ad avere gli strumenti per farla funzionare senza trovarci disorientati.

JM e LS: Curioso questo tuo riferimento alle caratteristiche disorientanti della città. Noi siamo dei nuovi arrivati paragonati a te, dal momento che questa sarà la nostra seconda volta a Torino, ma anche noi abbiamo la stessa sensazione. Torino non si svela facilmente agli estranei, o così ci sembra. Non è tanto una questione di perdersi o non essere in grado di trovare la strada (come hai detto questo non succede più con Google Maps), ma si tratta più di una certa opacità che definisce la città. Pensi che questo si traduca anche nell’ethos di Artissima?

JC: Penso che questo si applichi a tutte le fiere, per quanto crediamo che il sistema dell’arte sia “globalizzato”, rimane anche molto locale. Riconoscere le identità peculiari resta una cosa molto importante e ovviamente è un processo che richiede tempo e attenzione. Credo che questo sia qualcosa di molto caratteristico del mondo dell’arte in senso più esteso, perché è ancora un business molto “da persona a persona” (se non altro per le gallerie e il settore privato), che è anche la ragione per cui non sono una grande follower o supporter dei social media. Ovviamente li uso, ma si tratta di uno strumento collaterale, una specie di lato divertente, di cui non mi fido profondamente in senso più prettamente professionale. Forse sto andando fuori tema.

JM e LS: No, in realtà no. Questa relazione interpersonale è qualcosa d’importante per te nel modo in cui hai concepito la galleria dall’inizio? Ti facciamo questa domanda perché sappiamo che supporti molto e hai relazioni personali con gli artisti con cui lavori. Petrit Halilaj, Patrizio Di Massimo e Rodrigo Hernandez, per nominarne solo alcuni, ne fanno tutti menzione quando parlando di te e della galleria.

JC: Si, penso che la relazione interpersonale sia cruciale, ed è anche il campo in cui credo di funzionare meglio. Siamo molto fortunati ad avere un team fantastico in galleria, e si, abbiamo una tendenza ad essere vicini ai nostri artisti. La maggior parte delle volte siamo legati da relazioni personali di affetto e fiducia reciproca, e realizzare insieme progetti e idee è quello che ci da soddisfazione. Ovviamente questo non è sempre possibile, date le distanze, le divergenze e le evenienze. La galleria ha attraversato parecchi cambiamenti negli ultimi due anni, specialmente grazie alla partnership con Florian Lüdde, che ha portato molte nuove brillanti energie ed entusiasmo. Questo settembre celebriamo il nostro decimo anniversario.

JM e LS: Una celebrazione decennale, veramente notevole! Stai pensando a qualche cambiamento o nuove direzioni per la galleria? Un anniversario è anche un momento di riflessione oltre ad essere un momento di celebrazione?

JC: Suppongo sia “notevole” oggigiorno, dato che così tanti colleghi che stimo hanno chiuso negli ultimi mesi o anni. La riflessione è più in questo senso, un argomento che sfortunatamente è molto presente e non facile da risolvere. Il mondo dell’arte è diventato molto esclusivo, non così democratico negli ultimi anni, se non altro nella mia esperienza. È controverso e contraddittorio, perché in un certo senso è cresciuto molto velocemente – pensate alla quantità di gallerie, fiere, eventi, biennali – cosa che potrebbe far pensare che ci siano più opportunità, ma allo stesso tempo è diventato più difficile navigarlo e costruirsi una posizione di rilievo al suo interno. Quindi si, riflettiamo molto su questo, ma allo stesso tempo cerchiamo anche di focalizzarci su quello che è importante per il lavoro della galleria, credendo che il vero impegno e una passione che non scende a compromessi possano fare la differenza. La più grande celebrazione è il fatto che siamo ancora in grado di trovare il tempo per dedicarci a progetti che siano soddisfacenti e gratificanti. Quest’estate ci siamo concentrati su una grande parte del Mail Art Archive di Ruth e Robert Rehfeldt, accompagnato da una pubblicazione e da un’estesa presentazione, suddivisa tra la nostra mostra di settembre con Ruth Wolf- Rehfeldt e la sua mostra all’ Albertinum Museum a Dresda. Abbiamo anche iniziato una nuova collaborazione con un giovane artista argentino, Gabriel Chaile, che ha passato l’estate con noi a Berlino. Penso che questo sia un lusso e un motivo di festeggiamento, l’avere il tempo e la concentrazione per seguire questi aspetti che fanno del nostro lavoro una continua esperienza appassionata della vita.

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