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Issue n. 4 | Andrea Bellini intervistato da Luca Lo Pinto

10 Settembre 2018 Artissima Stories

Luca Lo Pinto: Artissima è stata fondata nel 1994. Un anno che ben simboleggia la progressiva trasformazione del sistema dell’arte in un fenomeno globale e una conseguente professionalizzazione di tutti i suoi attori. Oggi quel processo ha raggiunto il suo apice accelerato dall’impatto della tecnologia. I musei cercano faticosamente di rincorrere linguaggi che corrono ad altre velocità; il modello delle istituzioni pubbliche europee subisce i colpi di una politica populista; il mercato asiatico ha acquisito sempre più potere; alcune gallerie producono mostre di livello museale che gli stessi musei non possono permettersi. In questo scenario bisogna aggiungere la presenza nel 2018 di 260 fiere d’arte. Nel corso della tua carriera hai avuto il privilegio di osservare il sistema dell’arte da tutti i punti di vista. Come è cambiato nel corso di questi anni il tuo pensiero rispetto al ruolo e alla funzione delle fiere oggi?

Andrea Bellini: Io penso che la funzione delle fiere è stata e sarà sempre la stessa: sono il principale motore economico del mondo dell’arte. Non vanno né santificate né demonizzate, sono quel che sono, e come tutti i campi dello scibile umano sono eventi che possono evolvere e migliorare. Non bisogna tuttavia dimenticare che le fiere fanno parte di un sistema più complesso, composto da musei, kunsthalle, spazi non profit, scuole d’arte, riviste ecc. Le fiere non possono sostituirsi a nessuno di questi elementi del sistema. Prova ad immaginare un mondo dell’arte nel quale sono rimaste solo le fiere… Mi sembra di evocare l’immagine di un’apocalisse.

L.L.P. Hai diretto Artissima per tre anni dal 2007 al 2009 e sei stato tra i primi ad intuire come una fiera d’arte non dovesse limitarsi ad essere un evento puramente commerciale ma potesse trasformarsi in un evento culturale espanso. In tal senso Accecare l’ascolto è il miglior esempio della tua visione. Un fitto programma di performance, concerti ed happening prodotti dalla fiera e presentati in cinque teatri torinesi. Come definiresti i tratti distintivi della tua direzione? 

A.B. Intanto vorrei dire che quando sono arrivato io Artissima esisteva da tempo ed era già un’ottima fiera. Io ho cercato di trasformare Artissima in un evento che da un lato potesse funzionare economicamente per i galleristi (da qui la riduzione del numero delle gallerie da 200 a 140) e che dall’altro potesse funzionare per un pubblico ampio, come luogo di produzione di progetti sperimentali. Ogni edizione da me diretta ha presentato un insieme di eventi ambiziosi e differenti: quello del teatro è solo uno dei tanti che abbiamo concepito e realizzato. Abbiamo creato diversi contenitori di progetti paralleli come quelli dedicati al suono, alla performance, al video e al cinema. Con Stéphanie Moisdon abbiamo presentato in fiera una scuola temporanea, invitando a parlare artisti come Roberto Cuoghi e Tino Sehgal. Abbiamo creato un giornale trilingue e abbiamo pubblicato diverse monografie. Insomma io credo che il tratto distintivo della mia direzione sia stata la volontà di fare di Artissima non solo una fiera cutting edge, dedicata all’arte emergente, ma anche un luogo di produzione di energia, un laboratorio di idee e di progetti sperimentali.

L.L.P. Artissima è un rarissimo esempio di fiera finanziata con soldi pubblici. Da un lato si potrebbe obiettare che questi soldi potrebbero essere investiti per supportare o creare realtà non commerciali; dall’altro però offre la possibilità di poter produrre progetti più sperimentali come appunto Accecare l’ascolto. Qual è la tua opinione in tal senso? 

A.B. A fronte dell’investimento che Torino fa con Artissima, il ritorno sulla città – in termini economici, culturali e di comunicazione – è veramente straordinario. Io sono convinto che si tratti di un modello virtuoso, qualcosa di diametralmente opposto allo sperpero di denaro pubblico.

L.L.P. Un’altra peculiarità di Artissima è stata quella, a partire dalla tua nomina in poi, di avere dei curatori come direttori. Manacorda, Cosulich, Bonacossa. Miart ha a sua volta imitato il modello con De Bellis e ora Rabottini. Un caso tutto italiano. Per alcuni di voi la fiera è stata anche un trampolino di lancio per approdare alla direzione di musei. Per Bonacossa è accaduto invece il contrario provenendo lei da un museo. Una tua riflessione in merito. 

A.B. L’idea di farmi dirigere Artissima venne a Samuel Keller (ex direttore di Art Basel e allora già direttore della Fondazione Beyeler) al quale la Fondazione Torino Musei chiese di fare alcuni nomi di possibili candidati. Samuel aveva intuito che a Torino, non essendoci un mercato dell’arte forte, nemmeno paragonabile a quello di Art Basel, c’era bisogno di un direttore che potesse inventare qualcosa di nuovo, di un curatore più che di un manager puro. I fatti gli hanno dato ragione mi sembra. Dopo Artissima, Miart è stata reinventata seguendo la stessa logica, nominando un altro curatore, Vincenzo De Bellis. Si tratta come dici tu di una specificità italiana: noi siamo abituati a fare di necessità virtù. Non essendoci in Italia un collezionismo veramente internazionale come quello di Basilea, Londra o Parigi, bisogna creare attorno alle fiere altri elementi di interesse e di attrazione. Io ho elaborato un modello di fiera e una strategia per Torino che non avrei mai adottato nel caso in cui fossi stato nominato direttore di Art Basel. A Basilea la macchina è talmente rodata e il mercato talmente forte che sarebbe stato un suicidio spingerla in un’altra direzione. Per questa ragione, dal mio punto di vista, quella è una fiera molto meno interessante da dirigere per un curatore.

L.L.P. La tendenza a concepire una fiera come fosse un museo effimero aperto cinque giorni l’anno o un festival “curato” è ormai la norma, in particolare per quelle di medie dimensioni. Le grandi fiere (Art Basel, Frieze e Fiac) spesso fanno propri formati sviluppati in fiere più sperimentali per arricchire sempre di più la loro offerta. Negli ultimi anni stiamo assistendo poi a mostre o sezioni dedicate ad artisti storici corredate perfino da cataloghi. Pensi sia ancora importante tracciare un tratto di demarcazione rispetto al contesto in cui un certo tipo di operazioni devono avvenire? E’ anacronistico attribuire la responsabilità di produrre pensiero, fare ricerca, rileggere la storia, esclusivamente ai musei e ai centri d’arte contemporanea? Nel 2016 Elmgreen & Dragset hanno concepito una mostra all’UCCA di Pechino come una fiera divisa in booth con dentro le loro opere. Un commento critico e autocritico sullo stato dell’arte oggi…

A.B. Tutte le fiere, per quanto prestigiose, hanno bisogno di presentare ogni anno qualche novità. Questo è normale: non credo si tratti di una dinamica che possa mettere in pericolo il sistema museale, meglio non essere moralisti al riguardo. Tra l’altro questa attività più propositiva sul piano culturale da parte delle fiere, può portare all’elaborazione di idee e formati nuovi. Per esempio non vedo nessun museo o centro d’arte investire una cifra considerevole per produrre 15 progetti inediti da realizzarsi in 5 differenti teatri, come feci io con Artissima. Nessuna istituzione può permettersi di investire un budget importante per realizzare progetti esclusivamente al di fuori delle sue mura. Io dopo la fiera ho diretto un museo e un centro d’arte e in questi contesti non ho potuto ripetere quel tipo di esperienza. Mi parli della responsabilità di produrre pensiero… Vedi io credo che la nostra intelligenza non risieda nei singoli cervelli ma nella mente collettiva. La responsabilità di produrre pensiero è di tutto il sistema dell’arte, fiere incluse.

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